
Di seguito la commovente lettera del meteorologo Filippo Thiery a Daniele.
Di seguito si riporta la commovente letterda del meteorologo Filippo Thiery a Daniele: Caro Daniele, in questi anni, te lo posso giurare su quello che vuoi, non me lo ero mai neanche lontanamente immaginato, che sarebbe potuto arrivare il momento vissuto in queste ultime due settimane, quello in cui avrei fatto le previsioni meteo sul Nanga Parbat non per la pianificazione delle tue scalate, ma per fornirle a chi coordinava le operazioni volte alla tua ricerca. E non sai quante volte, in questi giorni irreali, dopo aver studiato le carte meteorologiche centrate su quella zona del globo, ho istintivamente pensato “ok, il meteo domani dovrebbe andare così, ora lo scrivo a Dan”… e prima ancora di realizzare l’assurdità di quel pensiero, continuare a riflettere “devo anche chiedergli se ieri alla fine è nevicato quanto pensassimo, oppure meno, e se il vento abbia davvero rinforzato quanto gli avevo detto”… perché questa è stata la nostra storia e la nostra amicizia in questi anni, fatta non solo di un forte patto di reciproca fiducia e vicendevole responsabilità, vista la delicatezza delle informazioni che ci si scambiava e soprattutto dell’utilizzo che dovevi farne, ma anche di una strettissima e indispensabile sinergia, in cui la previsione la facevamo in due, tu osservando il cielo e la montagna, io usando i tuoi occhi sul posto per la cruciale fase di verifica, senza la quale il contributo di un meteorologo, per quanti modelli matematici possa consultare, perderebbe molta della sua efficacia, se non tutta. Non so quanti alpinisti al mondo, e non lo dico perché sono di parte ma per sincero dubbio, avrebbero potuto offrirmi questo riscontro non solo continuo, ma anche condotto con il necessario sguardo oggettivo, metodico e scientifico.
Daniele come grande pianificatore; attento e prudente.
E se era uno scenario la cui eventualità non mi sfiorava neanche l’anticamera del cervello, quello in cui incredulo mi sono trovato barcollante a muovermi in questi giorni, non è perché per amicizia ed affetto volessi fugare il pensiero di un momento così angosciante, ma semplicemente perché ho conosciuto, fin dall’inizio, la maniacale attenzione e prudenza con cui hai sempre affrontato la pianificazione di ogni singola giornata e di ogni singolo passo sulla montagna, lo scrupoloso e continuo calcolo del rischio a cui dedicavi tutta la tua concentrazione, scartando a priori le giornate in cui quest’ultimo superava la soglia che ritenevi accettabile, e tenendo questa tua personale asticella del rischio, quella che non eri risposto a valicare, molto (ma molto) più in basso di quanto possa credere chi segue queste imprese da casa propria, giudicandole tipicamente come uno sprezzo del pericolo, un azzardo privo di qualsivoglia soglia del rischio, o un modo per mettere a repentaglio la propria vita (salvo poi, ne abbiamo costante e triste dimostrazione dalle pagine di cronaca, restando amenamente in spiaggia o su una cresta montuosa durante un temporale, guidando con l’occhio più al telefonino che al volante, o percorrendo un torrente in fondo a una gola mentre il cielo si fa nero e in lontananza si sente tuonare, dimostrando una totale e sciagurata incapacità di valutazione del rischio, quando non lo smaccato disprezzo del valore della propria vita, aspetti che invece per te, ovunque ti trovassi dal livello del mare in su fino a ottomila e passa metri, erano punti fermi, costantemente in cima ai tuoi pensieri). Ne è riprova il fatto che su quella montagna, prevalentemente su quella via, ci hai passato cinque inverni, mica un giorno, a forza di non perdere mai la pazienza di aspettare il momento meno rischioso, di minimizzare la tua esposizione al pericolo, di evitare le giornate e le situazioni in cui qualcosa non ti convinceva, foss’anche solo un’intuizione o una sensazione (“Pippo è troppo bianca la roccia lassù stamattina, qui al base in realtà è nevicato poco, come mi avevi detto, ma lì non capisco se è solo neve appiccicata dal vento, oppure se in quota ne ha proprio fatta molta di più, in questo caso è pericoloso per le valanghe, nel dubbio siamo rimasti qui, peccato per la bella giornata certo, ma vatti a fidare”)… a costo di “buttare” finestre di tempo favorevole per dare alla montagna il tempo di scaricare la neve caduta nei giorni precedenti, di attendere più di un mese senza muovere un passo dal campo base, di tornare indietro mentre eri appena sotto o già sopra lo sperone, cambiando in corsa, proprio sul più bello, la pianificazione che ti eri proposto.
Hanno aspettato 40 giorni per far evitare situazioni di rischio troppo alte.
Compreso quest’anno, quando arrivando al Campo Base il 28 dicembre, avete posizionato Campo 2 e Campo 3 a tempo di record, rispettivamente il 5 e il 9 gennaio, avete iniziato la scalata dello sperone il 16 gennaio arrivando a lasciare uno zaino col materiale a quota 6200, rientrando al Campo Base già col pensiero a tornare su per proseguire la via… per poi mordere lungamente il freno proprio sul più bello, per evitare situazioni di rischio troppo alto, finendo pazientemente con l’aspettare quasi 40 giorni per tornare sopra Campo 3, e riaffrontare quindi il tratto più impegnativo della via: fino cioè al 23 febbraio, il giorno in cui siete poi arrivati a posizionare Campo 4, quello da cui il giorno dopo hai fatto l’ultima telefonata a Daniela, durante la quale le hai chiesto di contattarmi, per potergli poi trasmettere qualche elemento in più sulla tendenza dei giorni a seguire. Anche in quel momento, come sempre, con la mente alla pianificazione, alla programmazione, alla valutazione più esaustiva e meticolosa possibile sul da farsi.
Cinque settimane e mezza di attesa, dopo quel 16 gennaio, ad inventarsi qualsiasi cosa per ingannare il tempo al campo base, o a battere la traccia nella neve fresca fino all’inizio del ghiacciaio (più per tenervi in movimento che altro) o verso valle (per permettere ai portatori di portarvi i rifornimenti), a disseppellire di ora in ora le tende sommerse dalla neve, ad andare un paio di volte a controllare i materiali fino a Campo 2, senza osare oltre… eppure non sono certamente mancate le giornate in cui il cielo era benevolo, e le previsioni non erano male, però in quei casi non ti convinceva la montagna, come il 16 febbraio in cui, ridendo al telefono, mi raccontasti “pensa Pippo, oggi al campo base abbiamo pranzato all’aperto con Tom, un sole pazzesco, certo ritrovarsi a scalare sullo sperone in una giornata così sarebbe stata una cosa fantastica… però non ci siamo fidati ieri, l’atmosfera era pesante su, non ci siamo neanche fermati a dormire a Campo 2 e siamo ridiscesi subito al base, a vederla oggi rosichiamo, ma va bene così, non si sa mai”… oppure quando mi dicevi “sì, tempo ottimo oggi, lo sperone è in condizioni perfette visto da qui, ma il problema è arrivarci!
Il Pericolo stava prima dello sperone
Sul tratto da qui alla base c’è ancora troppo pericolo che la montagna scarichi, non mi fido, fa rabbia vedere lo sperone così bello da qui, ma aspettiamo ancora”. O come quella volta, negli anni addietro, quando accendendo il pc al mattino presto feci un salto sulla sedia, nel vedere sulle carte meteorologiche che un massimo secondario della corrente a getto, sganciatosi dal flusso principale, puntava dritto sul Nanga e vi avrebbe investito di lì a poche ore con venti violentissimi, proprio nel giorno in cui sapevo che saresti salito di quota, visto che nelle mappe del giorno prima non c’era traccia di quella dinamica… mi attaccai al telefono, chiamai tuo fratello Claudio che sapevo essere in costante contatto con te, rispose che in quel momento non aveva ancora ricevuto tue notizie, provai un tuffo al cuore… e dopo un po’ mi richiamò dicendo “tranquillo, era già sceso, guardando il cielo e la montagna ha subdorato che la situazione stesse cambiando, e non si è fidato”, e non è stata l’unica volta in cui il tuo naso da alpinista, la tua capacità di leggere i segnali attorno e sopra di te e di tradurli lucidamente in decisioni da prendere all’istante all’insegna della prudenza, sono arrivati prima delle carte meteorologiche.
Un innamorato della vita, che tutto faceva tranne che metterla a repentaglio, e per il quale scalare era – prima ancora che sogno e passione, prima ancora che attrazione per l’avventura e l’esplorazione su una via di bellezza inaudita e mai percorsa da nessuno – un continuo calcolo, una meticolosa e scientifica pianificazione senza trascurare nessun aspetto, dalla condizione fisica alla logistica, dalla strategia di avanzamento alle condizioni meteo, sapendo bene (forse siamo noi, qui al livello del mare, che ce lo dimentichiamo troppo spesso) che poi nella vita esistono anche gli eventi capaci di sfuggire a qualsiasi precauzione, una ruota che scoppia a un camion mentre lo superi, tornando come tutti i giorni a casa dal lavoro, può portarti improvvisamente e brutalmente, senza alcun preavviso, a un passo dalla morte (sai Dan, è successo pochi giorni fa a un mio caro amico, se l’è cavata per una frazione di attimo, e non c’era assolutamente nulla che potesse fare per eliminare quel rischio, non aveva sottovalutato nessun pericolo, non aveva nessuna colpa, era semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato… al netto di quel mezzo secondo che l’ha salvato, decidete voi se è stato fortunato lui, o se chiamare sfortuna i casi in cui va a finire male, ma è inutile che cerchiate altri nomi da attribuire a un evento come questo, non ce ne sono, a meno che non invochiate il fato o il livello mistico, naturalmente, ma qui entriamo in altre sfere, sulle quali ognuno ha le proprie risposte).
Un incidente in parete secondo Txikon: No valanghe o seracchi come ipotizzato inopportunamente da Moro o Messner.
E infatti, prescindendo da considerazioni sull’opportunità quantomeno della tempistica, con cui tanti opinionisti da social si stanno ignobilmente cimentando a dire la loro (si poteva almeno aspettare un pochino, c’è un tempo per tutte le cose, invece che fare la corsa sciacallistica a parlare in questo momento di estremo dolore), io mi permetto solo di sottolineare che la ricostruzione più plausibile che al momento si può fare dell’accaduto, grazie alla generosa e valorosa opera di ricerca e documentazione di Alex Txikon (di quanto fatto da lui in questa occasione scriverò poi a parte, con calma), è che non si sia trattato di una valanga o del crollo di un seracco (cioè dei motivi per cui quella via è notoriamente pericolosa, ma che tu in questi cinque inverni hai ripetutamente dimostrato di conoscere a menadito, e di sapere bene come minimizzare la propria esposizione a questo pericolo, pianificando meticolosamente giorno per giorno la strategia sia di avvicinamento che di scalata dello sperone, in base alle condizioni contingenti della montagna e del meteo, e rinunciando tante volte a salire se qualcosa non ti convinceva, a costo di eccessi di prudenza e di tornare l’anno dopo), ma di un incidente in parete: impossibile conoscerne i dettagli (purtroppo gli ultimi sorvoli che si sperava di fare, per realizzare foto più ravvicinate, non sono stati possibili, a causa prima di esigenze militari e poi di un guasto tecnico), ma comunque un incidente in parete, come quelli che possono capitare su qualsiasi montagna del mondo, comprese le Alpi e gli Appennini. Per cui dipingerti come un pazzo scriteriato per esserti andato a cacciare su quello sperone, quando – per quello che possiamo attualmente ricostruire – è molto probabile che la tragedia tua e di Tom non abbia nulla a che vedere con la pericolosità di quella via, è davvero qualcosa di ignobile, dettato dall’ignoranza o dalla malafede.
Il rapporto con Daniele
Scrivo tutto questo perché, fra le tantissime cose che mi si accavallano in mente, la prima a cui tengo è di raccontare il Daniele che ho conosciuto, un ragazzo che teneva tantissimo alla vita, al punto da volerla colorare di sogno e di passione, e tutto faceva tranne che esporsi incautamente al pericolo, anzi. Ed è quello che racconterò a tuo figlio, il giorno che volesse ascoltare un vecchio amico di suo papà.
Per tutti gli altri ricordi, Dan, ci sarà tempo. Il tuo essere ambasciatore dei Diritti Umani nel mondo, la tua opera di supporto e solidarietà alle genti di quelle valli, la grande sintonia con Tom, la felicità quando mi hai detto che sarebbe venuto con te quest’anno e il senso fortemente protettivo che avevi verso di lui (ho i tuoi whatsapp di queste settimane dal campo base del Nanga che lo testimoniano), e tanto altro.
Adesso sono qui solo per abbracciarti, salutarti e ringraziarti, sei stato un compagno di strada semplicemente trascinante, e la fiducia che hai voluto riporre nei miei confronti è stato un pazzesco regalo della vita. Con te, oltre che un amico, la cui assenza scava inevitabilmente un vuoto inaudito, se ne va l’esperienza più bella, intensa e incredibile della mia vita professionale. Ho guardato ieri per l’ultima volta, perché non credo proprio che lo farò mai più, le carte del jet stream sul subcontinente indiano, era l’ultimo giorno delle operazioni di ricerca, quelle che finora ci avevano tenuti concentrati e trepidanti, e in qualche modo ci hanno garantito un minimo di distacco, perché per dare il contributo migliore possibile non potevamo permetterci di cedere all’emotività, né al dolore.
Ora, invece, è arrivato il momento più difficile.
I suoi precedenti tentativi allo Sperone, il salvataggio di Ali Sadpara e di Adam Bielecki.
La foto più bella che ho insieme a te ce la siamo fatta alla Vigilia di Natale del 2014, davanti a un bar romano dove ci eravamo visti per due chiacchiere prima della tua partenza: stavi per affrontare il tuo terzo inverno sul Nanga, quell’anno arrivasti in solitaria fino a quota 6200 sullo sperone Mummery (eri al settimo cielo, dopo quella suppur parziale scalata, completamente da solo sulla via dei tuoi sogni, fin dove era stato possibile arrivare “by fair means”, con mezzi leali, con le proprie forze), e poi accettasti l’invito a unirti alla spedizione sulla via Kinshofer capeggiata proprio da Alex, quando rinunciaste a un tiro di schioppo dalla vetta, per salvare la vita all’altro compagno di scalata, Muhammad Ali, che stava male. E quando tornasti in Italia, lo testimoniano i video delle interviste che sono ancora in rete, il tuo pensiero non era tanto alla cima sfiorata di un soffio, ma all’altra via, quella lasciata solo momentaneamente, all’idea di completare quello sperone così bello ed elegante, lungo il quale, in questi anni, hai dato forma e concreta all’ancestrale sogno del genere umano, senza il quale saremmo rimasti all’età della pietra, la voglia di conoscere se stessi e il resto dell’universo, di affrontare i limiti umani e provare a superarli, coniugando coraggio e responsabilità, slancio verso l’ignoto e voglia di tornare a casa. Quello sperone che per te non è mai stato un modo per mettere a repentaglio la tua vita, ma al contrario per viverla nel modo più pieno che si possa immaginare, quello di chi coltiva i propri sogni, le proprie passioni e la sete di conoscenza e di ricerca. Lo sperone dove riposi ora.
Dan, ora vado, è ora di salutarci.
Mi aspetta – come a tutti coloro che ti hanno conosciuto e voluto bene – una scalata difficile, perché stavolta all’altro capo della corda non ci sei tu, a fare sicurezza e tenere l’ancoraggio, come facesti quel giorno di gennaio sempre su quella montagna, salvando da una caduta fatale Adam Bielecki, stemperando subito dopo la tensione in un caldo abbraccio e una bella risata. Quella stessa risata che mi arrivava, forte e chiara nonostante provenisse via satellitare da una delle più remote zone del globo, quando mi chiamavi dal satellitare, e avevi sempre la capacità di sdrammatizzare, di utilizzare anche gli elementi negativi in informazioni utili a riprogrammare la strategia, e di tenere botta. Ho scelto questa foto: l’hai scattata tu, nel 2013. Sì certo, dallo sperone Mummery, più o meno dal punto dove sei adesso, inquadrando verso la base della montagna, quindi non solo verso il campo base ma soprattutto verso la valle del Diamir, quella che avresti poi ripercorso, a fine spedizione, per tornare a casa, dai tuoi affetti. E’ esattamente la vista che hai ora Dan, almeno nelle giornate di sole, quando le nubi decidono di aprirti il sipario sull’orizzonte, e di svelarti tutto il panorama del ghiacciaio morenico che scende verso la valle… noi siamo laggiù in fondo, amico mio. Non perderci di vista.
Sono un fisico, meteo appassionato e meteorologo, scrivo da anni notizie sul web. Sono esperto di argomenti che riguardano sport, calcio, salute, attualità, alpinismo, montagna e terremoti.